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lunedì 13 maggio 2013

Italoamericani e cinema: sulle tracce di un’identità complessa


ITALIANI ALL’ESTERO
Italoamericani e cinema: sulle tracce di un’identità complessa

Mercoledì 15 maggio un incontro a Roma con Anna Camaiti Hostert per riflettere su identità italo-americana e rappresentazione cinematografica

ROMA – Un’occasione per riflettere su identità italo-americana e immaginario cinematografico nell’incontro previsto mercoledì 15 maggio a Roma presso la sede dell’associazione Leusso (viale Regina Margherita 1) alle ore 18. 

L’iniziativa, intitolata “Il cinema tra rito e impresa: Scorsese, Spielberg, Bergman”, prevede infatti il contributo di Anna Camaiti Hostert, studiosa e docente di cinema e visual culture, nata a Firenze e laureatasi in filosofia all’Università di Pisa per poi emigrare negli Stati Uniti, dove ha affiancato l’attività accademica all’approfondimento costante del tema dell’identità. Tra i suoi lavori di maggior rilievo vi è Scene italoamericane, la prima raccolta di saggi su come l’identità italoamericana abbia influenzato il modo di fare cinema in America, curato insieme a Anthony Julian Tamburri, oggi preside del John D. Calandra Italian American Institute of Queens College/Cuny. 

È proprio il cinema ad innescare una riflessione su quanto e come si sia trasformata attraverso gli anni l’identità degli italiani emigrati in America, condizionando di pari passo quella dei loro discendenti, riflessione che, grazie ad un mezzo così potente e popolare, raggiunge un pubblico più vasto rispetto al solo mondo accademico: la comunità italiana negli Stati Uniti, in primis, ma anche chiunque abbia nel suo bagaglio di esperienze personali una vicenda migratoria. “Sono le figure dello spaesamento, dell’ibridazione, della contaminazione […] a diventare le protagoniste di questo libro sulle forme di rappresentazione cinematografica degli italoamericani – si legge nelle “Note preliminari” al testo curato da Camaiti e Tamburry, introduzione in cui ci si interroga proprio sul significato di “essere italoamericani”. Figure che a ben guardare interessano oggi non solo chi vive in prima persona l’esperienza migratoria, ma la condizione umana più in generale in un mondo globalizzato. Quella italoamericana ci appare, dalle pagine del testo, una comunità fortemente “immaginata”, non nel senso di “inventata”, ma in quello di costruita, attraverso l’immaginario cinematografico ma anche attraverso il punto di vista dell’altro – sia esso il luogo di accoglienza e le diverse componenti che lo abitano, la cultura dominante ma anche le subculture – e passando al vaglio delle stesse generazioni di italiani che si sono succedute nel percorso di emigrazione. E, come evidenzia Anna Camaiti, di tratta di un processo di definizione della propria identità destinato a rimanere un work in progress, “un’identità contaminata e contaminante”, come si definisce lei stessa. 

A pochi giorni dall’incontro, abbiamo ripercorso con Anna Camaiti l’evolversi dell’identità italoamericana, trasformazione che si riflette anche nel modo di fare cinema delle nuove generazioni di discendenti di italiani in America e su cui si concentrerà il suo contributo di mercoledì. “Oggi le cose sono molto cambiate, ma prima del made in Italy, marchio che ha rafforzato, se non innalzato, tutto ciò che è italiano all’estero, i nostri connazionali hanno subito pesanti discriminazioni – afferma la studiosa, richiamando i dispregiativi un tempo utilizzati nei loro confronti: wap, senza documenti, oppure dago, forma contratta per until the day goes, che indicava coloro che erano costretti a lavorare a giornata, oppure greaseball, nomignolo derivante – nel migliore dei casi - dall’uso della brillantina sui capelli. Molti sono i film che rappresentano “un italianità fatta di subalternità e repressione, a cui gli italiani si sono giocoforza adattati – spiega la studiosa, rilevando come molti arrivassero anche a negare la loro origine. Una negazione che spiega anche il perché non si insegnò l’italiano ai propri figli, lingua che veniva associata alle difficoltà e al senso di esclusione subito. “La generazione del made in Italy, gli emigrati italiani negli Stati Uniti dagli anni ’80 in poi, costituiscono una componente molto diversa dalle precedenti generazioni e il contrasto si avverte molto: vi è una minoranza colta di laureati, emigrati con professionalità specifiche, che hanno incontrato difficoltà di adattamento molto minori rispetto al passato. Questi ultimi poi hanno un’immagine dell’Italia più attuale, rispetto a quella degli emigrati di più antica data – afferma Camaiti, che tiene però a evidenziare “la gentilezza, il garbo, una certa sensibilità ed eleganza che le generazioni più anziane hanno trasmesso ai propri figli e nipoti”. “Elementi di un’Italia che purtroppo oggi non esiste più, un’Italia – rileva - che oggi si è imbarbarita”. 

Per illustrare meglio il tema dell’identità, Anna Camaiti chiarisce di sentirsi lei stessa italoamericana. “Da circa 25 anni vivo in America, mi sento quindi, se così si può dire, contaminata e contaminante – afferma, spiegando anche come il ricorso alla cucina aiuti a illuminare e comprendere i processi legati all’identità nazionale. “In un libro dell’antropologo Franco La Cecla, La pasta e la pizza, si rileva come pasta e pizza siano diventati cibo nazionale dopo che gli italiani sono emigrati all’estero. Si deve a questi ultimi se pasta e pizza sono divenuti ora simbolo dell’italianità. Prima, infatti, la pasta si mangiava soprattutto al Centro e al Sud, mentre al Nord era più comune il riso. Vediamo allora come l’emigrazione italiana e le sue caratteristiche, alcuni dei suoi tratti distintivi, siano tornate in Italia e l’abbiano contaminata in un processo di osmosi che ha contribuito a trasformare lo stesso Paese di origine – afferma Camaiti, segnalando come alcune pietanze attribuite in America alla tradizione italiana – per fare un esempio, spaghetti e meat balls (polpettine di carne) – non siano in realtà tipiche se non di alcune zone circoscritte del nostro Paese . “I processi di emigrazione definiscono sempre identità plurime – prosegue, – esattamente come un timballo, per tornare agli aspetti culinari, in cui gli ingredienti più diversi convivono” “L’italianità è una cosa molto difficile da definire, già prima dei processi di immigrazione che negli ultimi anni hanno interessato il Paese”: Anna Camaiti richiama infatti l’incontro/scontro di popolazioni e culture che hanno fatto la storia dell’Italia, anche precedentemente l’unità d’Italia. “Già prima dell’Unità nazionale noi eravamo già identità diverse e contaminate: pensiamo alla pasticceria italiana, quella meridionale influenzata dalla tradizione araba, quella settentrionale di tradizione centro-europea e una terza componente che è un mix delle due precedenti. Si tratta di fenomeni di cui forse non si è sufficientemente parlato – dice. 

Ma c’è una componente tragica nelle vicende che hanno accompagnato e accompagnano la definizione dell’identità. Per illustrare i rischi connessi all’affermazione di se stessi e della propria identità etnica, Anna Camaiti cita un suo libro il cui titolo richiama un romanzo di Nella Larsen, protagonista della Harlem Renaissance: Passing ("Passing. Dissolvere le identità, superare le differenze"). Passing – il romanzo del 1929 - indica la pratica adottata da alcuni neri d’America di “passare” per bianchi, nel caso il colore della propria pelle – la tonalità più chiara - lo avesse consentito. “Chi compie questo passaggio – ci spiega Camaiti – si inoltra su di un terreno sconosciuto, in cui non sa cosa può accadere. Si mette nella condizione di spogliarsi delle proprie origini per guardarle dal di fuori, che è ciò che succede in tutti i processi di emigrazione. Questo è il processo dell’identità. Entrare in terreni diversi da quelli in cui ci riconosciamo pienamente. L’identità non può essere considerata come qualcosa di sclerotizzato, di fisso, come una gabbia, perché è qualcosa di aperto alle trasformazioni e alle contaminazioni”. 

Solo l’esperire qualcosa di diverso da noi ci aiuta a comprendere ciò che siamo veramente e ad affermare, e nello stesso tempo rielaborare, un’identità matura e consapevole. “Allo stesso modo, chi nasce in Italia spesso non si accorge delle potenzialità e delle nostre incredibili eccellenze. Per questo io sono convinta che i migliori ambasciatori della nostra cultura sono gli italiani all’estero: sono loro a testimoniare con la loro presenza la nostra ricchezza e cultura – afferma la studiosa, richiamando l’importanza di questa presenza proprio nell’anno in cui si celebra la cultura italiana negli Stati Uniti. 

Gli italoamericani hanno contribuito alla definizione di un’identità etnica positiva nel loro Paese di residenza, ma le loro storie e il loro impegno – viene rilevato in Scene italoamericane - hanno finito per realizzare un’aspirazione di riscatto che è a ben guardare profondamente americana. Tuttavia permane anche nel cinema dei nuovi registi italoamericani una vena tragica connessa a questa identità, anche se raccontata in modo più lieve. “Valori che erano considerati dei punti di riferimento vengono ora messi in discussione, provocando una sofferenza nei confronti di un’identità che viene percepita quasi come diluita – afferma Anna Camaiti. Ancora una volta, il cinema che racconta con cura e onestà vicende personali e irripetibili scopre la portata universale del suo messaggio. 

Il programma dell’incontro di mercoledì è disponibile sul sito dell’associazione: www.leusso.it. (Viviana Pansa – Inform)

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